Da Moked
Venezia, Campo San Fantin: dall’accalcarsi della folla che la pur grande sala dell’Ateneo Veneto non potuto contenere in occasione della presentazione di Venezia e il ghetto si è passati nel giro di neppure due ore al fruscio degli abiti lunghi. Erano già percepibili sin dal mattino la grande attesa e le aspettative che hanno portato ieri un pubblico un po’ diverso dal solito nel sestiere San Marco, il più turistico di Venezia. La coda davanti alla Fenice attraversava tutto il campo San Fantin già prima dell’apertura della biglietteria, dove per tutta la giornata il personale del teatro e del Comitato VeniceGhetto500 si è occupata dei tanti ospiti che vi giungevano per ritirare gli inviti ed avere informazioni. La sicurezza, che ha presidiato l’area prima discretamente e poi con una presenza massiccia ha visto decine e decine di persone arrivare alla spicciolata in quello che per alcune ore si è trasformato in uno scenografico e affollato salotto dell’ebraismo italiano. Così affollato, in effetti, che in molti non sono neppure riusciti ad entrare nella pur grade sala dell’Ateneo Veneto, dove Paolo Rumiz, Dario Disegni e Stefano Jesurum hanno presentato, insieme all’autrice, Venezia e il ghetto (Bollati-Boringhieri), il volume che la storica veneziana Donatella Calabi ha dedicato al “Recinto degli ebrei”. Il sempre più frequente utilizzo della parola “ghetto” in riferimento a casi di isolamento anche molto diversi fra loro, oltre che lontani geograficamente e politicamente, è la riprova di come il termine nato a Venezia sia diventato a tutti gli effetti paradigmatico dei luoghi dell’esclusione. È importante allora ripensare oggi, a cinquecento anni dalla sua istituzione, alla lunga storia del ghetto veneziano, alle sue molte contraddizioni, alla sua complessità, al significato di segregazione che questo termine è andato man mano assumendo. Così come anche, per converso, è necessario riflettere sul “cosmopolitismo” che a questa vicenda è strettamente legato. Conoscerla meglio porta alla consapevolezza che l’identità ebraica è parte integrante dell’identità europea e farlo ora, in un continente libero e riunificato ma incapace di governare le nuove ondate di paura innescate dai flussi di rifugiati, può forse contribuire a cogliere al meglio la sfida che l’Europa ha di fronte a sé: quella di evitare una nuova stagione di muri di cemento e di barriere di filo spinato, per ovviare al pericolo di un mondo costituito da “un arcipelago di ghetti”. Temi strettamente intrecciati, e collegati a doppio filo alla prolusione che neppure due ore dopo lo storico inglese Simon Schama ha tenuto dal palco della Fenice, riuscendo a raccontare in tempi brevissimi cinque secoli di storia. Un discorso rigoroso e appassionato insieme, accolto con viva attenzione dal pubblico accorso alla Fenice per un’occasione percepita da tutti come importante. Accolti da una barriera di fotografi assiepati nell’area loro destinata, numerosi rappresentanti delle istituzion si sono voluti unire ai tantissimi ebrei italiani e ai cittadini veneziani che non hanno voluto mancare l’apertura ufficiale delle celebrazioni. Il parterre d’eccezione e la voglia di ritrovarsi hanno aggiunto alla già suggestiva atmosfera dello storico teatro un’emozione in più. L’intera Italia ebraica era rappresentata in platea, e nei palchi pieni sino all’ultimo loggione, a costituire un pubblico non solo numerosissimo, ma che ha prestato grande attenzione ai discorsi così come alle note della Sinfonia numero 1 in re maggiore di Gustav Mahler, diretta dal giovane maestro israeliano Omer Meir Wellber che quasi danzando ma visibilmente emozionato ha condotto l’orchestra della Fenice in un’occasione diversa da tutte le altre.
a.t. twitter @atrevesmoked
(30 marzo 2016)